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Etiopia:

Carestia 2003

 

 

 

 

 

 

 

Addis Abeba, Awassa - aprile 2003


Come? Ancora? Quando leggi che in Etiopia 11 milioni e mezzo di contadini rischiano di morire di fame, la prima reazione è di stupore e di indignazione. Sì, ancora e peggio di prima. Quanti sono 11 milioni e mezzo? Bisogna fermarsi un momento per ricordare che dietro quel numero ci sono persone, c’è un mondo di affetti, di pensieri semplici e profondi, di relazioni, di bisogni. Ecco che quella cifra diventa una folla, l’ennesimo titolo di giornale diventa una tragedia umanitaria e personale.
Ecco i dati: nell’anno 2002-2003 è tornata l’emergenza siccità in Etiopia, l’unico paese africano a non aver conosciuto il colonialismo (se si eccettua la breve occupazione italiana), una terra grande quanto Francia e Germania insieme, costituita per lo più da altopiani. Il governo, con l’aiuto del Programma per l’Alimentazione Mondiale è in grado di prevedere con sufficiente precisione l’andamento dell’agricoltura in base alla intensità e alla frequenza delle precipitazioni atmosferiche. Ed ecco che sin da novembre scatta l’allarme. Fino al prossimo raccolto, a luglio, c’è necessità di nutrire 11 milioni e mezzo di persone. Solo nel mese di aprile c’è sono stati distribuite 137.530 tonnellate di cereali, anche se la quantità pro capite mensile è stata ridotta a 12,5 kg.
Le cause della ennesima carestia sono molteplici e non tutte naturali. Non è vero che in Etiopia non piova, anzi. Ma quando piove l’acqua non resta nel suolo, scivola via portando con sè sementi e terreno. Mancano le strutture per la conservazione dell’acqua. Il terreno degli altipiani non è più o meno fertile degli altri. I mezzi di coltura non sono adeguati. I contadini usano ancora l‘aratro trainato da buoi e non possono andare a fondo, coltivano sempre e solo lo strato superficiale del terreno. L’ecosistema del territorio nazionale è cambiato negli ultimi 150 anni. Le guerre hanno deforestato gran parte della nazione (prima c’era la foresta tropicale), per la malsana abitudine di affumicare i nemici bruciando tutto intorno. Poi l’aumento della popolazione ha creato la necessità sempre maggiore di legno da ardere. Infine nell’800 è stato importato l’eucalipto dall’Australia, una pianta che cresce velocemente, fa ombra, ma non permette a niente di crescergli vicino. In due parole, quella che potrebbe essere una regione fertile e produttiva ora è un semideserto che non riesce a nutrire i suoi abitanti.
Ci sono poi i fattori macroeconomici: il prezzo del caffè (il prodotto di maggior esportazione) è crollato del 70%, lo stato spende ancora il 12,6 % del suo budget in armamenti, nonostante la guerra con l’Eritrea sia finita nel 2000 (e questo fa ritenere che possa ricominciare), il debito estero, è stato ridotto ma continua a strangolare la fragile economia del paese.
E poi c’è l’AIDS. Il 3% della popolazione è affetto da HIV. L’impatto sull’economia è rilevante. Le famiglie vendono i propri beni per comprare le medicine, gli adulti abbandonano i campi e i bambini spesso non vanno a scuola per poter badare a loro.
Senza le strutture economiche e le infrastrutture tecniche, la carestia non è l’eccezione, è la regola.

 

Con questi dati nella testa guardo il panorama che scorre dietro il finestrino mentre percorro i 250 km da Addis Abeba ad Awassa, nel sud del paese: un deserto popolato di acacie, grandi cumuli creati dalle termiti, capanne, e contadini che spingono l’aratro. Mi accompagna Feyessa Kayemo, il responsabile per lo sviluppo e gli aiuti umanitari della Chiesa Protestante Mekane Yesus (letteralmente:il luogo dove sta Dio), una denominazione nata dalle missioni luterane del nord Europa. Fondata ufficialmente nel 1959 con circa 20.000 fedeli, ora ne conta più di 4 milioni. Feyessa ha 50 anni, la sua etnia è Oromo (una delle due che combatterono e vinsero contro il regime comunista di Mengistu nel 1991). Si considera fortunato. La chiesa l’ha mandato a studiate negli Stati Uniti. Lui, figlio di contadini, gestisce oggi un budget di 10 milioni di dollari all’anno.
Mi accompagna nella zona in cui è nato. Scansando asini, capre, buoi e venditori di chat (una pianta che masticata produce gli stessi effetti dell’anfetamina, ma è legale) arriviamo in un grande campo di calcio. La folla si è già raccolta. Cinque seimila persone. Da una parte le donne con i bambini, sedute. I bambini hanno la pancia gonfia e le donne sembrano tutte della stessa età. Dall’altra parte del piazzale, in piedi, gli uomini. C’è silenzio. Un silenzio assurdo, carico di attesa, ma anche indolente. Non tutti riceveranno il sacco grano. Eppure sono lì. Come è noto, le emozioni del giornalista non fanno notizia. Non parlerò di me, ma dell’operatore che mi accompagna, un romano di grande esperienza nei reportages (insieme abbiamo filmato i cadaveri dei ruandesi, nel 1996). Imbracciata la camera ha iniziato a carrellare davanti alla fila delle donne e dei bambini. Poi si è fermato. Gli occhi inondati di lacrime. Non ce la faceva a continuare.
Come ci sembrano irreali quelle facce, quando occhi grandi ci spiano dalle pagine dei giornali o dal repertorio dei TG. Eppure è realtà. Quando ne senti l’odore, quando è davanti a te, sei impreparato ad affrontarla. Feyessa non smette di ripetere che quella gente era a scuola con lui, che lui è stato fortunato, che non capisce perché … cosa aveva fatto, lui, per meritare di salvarsi? Che cosa abbiamo fatto noi? - mi chiedo.
La distribuzione comincia: prima il cibo speciale per i bambini, un composto altamente nutritivo; poi i sacchi di grano. Arrivano dagli Stati Uniti. Dalle chiese protestanti? – chiedo - No, da quella cattolica. Ma come? Feyessa spiega che la distribuzione degli aiuti umanitari è uno dei campi in cui le tre chiese cristiane (protestanti, cattolica e ortodossa, quest’ultima la maggioritaria) lavorano congiuntamente. Tutti gli aiuti sono messi in comune e poi ognuno distribuisce secondo le zone in cui ha uomini e mezzi. Così capita che i protestanti distribuiscano riso mandato dai cattolici o gli ortodossi portino il grano mandato dalle chiese europee, tramite Action of Churches Together (ACT).
Va de sé che la distribuzione non ha nulla a che vedere con l’appartenenza confessionale o religiosa. La distribuzione non dura a lungo. La folla ritorna nelle capanne di paglia e fango.

 

Ma Feyessa non è convinto di avermi mostrato la cosa più importante: gli aiuti umanitari non bastano. Non possiamo continuare a spendere il 12,6 % del PIL in armamenti e a ricevere il 10% in aiuti, ogni anno. Bisogna mettere la gente in grado di provvedere a sé stessa.
Mi spedisce a nord, nel Tigray, al confine con l’Eritrea, nei pressi di Adua, dove i nostri furono sconfitti nel 1896 da Menelik II ( la data di quella battaglia è festa nazionale).
Solomon Gidey, il capo progetto mi mostra un campo ben arato con i pomidoro e i ranci ( pomodori e arance si chiamano così in questa zona). Una fila di banani e di alberi di papaia incornicia questo rigoglioso giardino. Tutto merito di una vecchia pompa Lombardini, Made in Italy, che tira su l’acqua dal fiume e irriga tutta la zona. Costo: 3 mila euro. Venticinque famiglie vivono su questo terreno. La pompa ha avuto un impatto considerevole sull’economia della zona. Prima l’acqua doveva essere trasportata a mano. Per questo le chiese europee hanno accettato di pensare più in grande: con solo 100.000 dollari raccolti da ACT, hanno deviato un fiume, costruito una canalizzazione e reso coltivabili 25 ettari, dando sicurezza economica a 400 famiglie. Il progetto è semplice. Dall’altopiano scende un fiume che dopo pochi chilometri si inabissa nelle viscere della terra. La piccola diga consente di deviare l’acqua del fiume e di canalizzarla per 2 chilometri. Lo vedi? Non possiamo far piovere ma la siccità si può combattere, mi dice Solomon Gidey.

 

 

Pubblicato su Diario.

 

L'inchiesta televisiva e' andata in onda su Raidue- Protestantesimo.

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