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Indonesia:

Riesplode la guerra nelle isole delle spezie

 

 

 

 

Molucche, 2000

Un combattente cristiano con i suoi figli


Ambon e le Molucche sono chiuse agli stranieri e tanto più ai giornalisti. Con un cordiale sorriso l’addetto stampa dell’ambasciata indonesiana ci informa che possiamo chiedere il visto. Se poi ci sarà concesso, è tutta un’altra storia. Così, travestiti da turisti, in pantaloncini corti, camicia hawaiana e macchina fotografica d’ordinanza, ci presentiamo all’imbarco per Ambon. Nessuno si cura della nostra identità e tanto meno del visto. Non che la polizia  di frontiera sia assente. E’ che nessuno, né l’esercito, ne la polizia e tantomeno i leaders politici, possono garantire la sicurezza. Durante uno scalo tecnico riceviamo la telefonata del desk officer dell’UNDP, Svante Skoog,  che ci sconsiglia caldamente di arrivare nell’isola per via di scontri che si erano verificati al mattino.  Si temono vendette incrociate. Il nostro ‘contatto’, un ufficiale della procura un cristiano battista, ci rassicura al telefono: va verrà a prenderci con la sua scorta. L’aereo parte con un’ora di ritardo. Sullo stesso volo un tipo ci guarda con insistenza. Indossa una maglietta di Amnesty International. Scopriremo più tardi che non è proprio un sincero pacifista. Il colpo d’occhio dall’aereo è splendido. L’isola è una meraviglia della natura. Certo i navigatori portoghesi e quelli olandesi, che arrivarono qui nel XV e XVI secolo in cerca di noce moscata e chiodi di garofano,  saranno rimasti affascinati dalla natura rigogliosa, dalle spiagge di sabbia fine, dal fiordo che si incunea nell’isola, dividendola quasi in due. A Nord c’è l’aeroporto, a sud, nella penisola più piccola, la città, Kota Ambon, 300.000 abitanti prima del conflitto.  Il nostro contatto si presenta puntuale all’arrivo con una decina di pastori protestanti che ci fanno festa. Della scorta armata neanche l’ombra.

Andare in città per via di terra implica attraversare due zone, due enclave musulmane. Meglio prendere lo speed boat e attraversare la baia. Dopo un breve tragitto in macchina,  saliamo sullo speed boatt. Lo chiamano così non tanto per la velocità che può raggiungere, ma perché va sempre a manetta. La baia infatti è dominata da una collina, dalla quale i musulmani, talvolta, fanno tiro al bersaglio. I 10 minuti per attraversare  questo braccio di mare paradisiaco si trasformano in un inferno. Ripassiamo a mente la formazione della nazionale di calcio italiana. Un carabiniere di stanza all’ambasciata  di Giacarta ci ha detto che è il miglior lasciapassare in caso di brutti incontri.  Le nuvole, presagio della fine della stagione delle piogge, si stagliano sul braccio di mare e siamo festosamente accolti dai gestori dei traghetti che, immancabilmente urlano ‘Italia! Alessandro del Piero!’. Siamo nella zona cristiana. Il pulmino zigzaga tra i bidoni pieni di terra posti in mezzo alle strade costeggiate da case distrutte, bruciate.  Ce ne sono almeno 50.000, in tutto il territorio delle Molucche sconvolto da una guerra civile che ha prodotto 3500 morti in 2 anni. L’esercito presidia ogni incrocio delle poche vie di comunicazione mentre l’autista ci indica la zona musulmana, la moschea Al Fatah e il minareto in cemento armato. 

Dei due milioni di abitanti delle Molucche, il 50% è cristiano  il 50% musulmano. Le proporzioni si sono mantenute anche dopo il conflitto, quando almeno mezzo milione di persone hanno lasciato le isole per rifugiarsi a Buton e a Manado, nel Sulawesi. Il Governatore delle Molucche, Saleh Latuconsina, non si stupisce di incontrarci. Ci accoglie nel suo ufficio circondato dal suo staff che sonnacchioso presenzia a tutta l’intervista.  Ci tiene a declinare l’appartenenza religiosa dei suoi collaboratori. Il governo locale è religiously correct, metà protestanti, metà musulmani. Lamenta immediatamente la mancanza di forze militari sufficienti (ci sono ‘solo’ 21 battaglioni) e l’assenza di una direzione politica precisa da Giacarta. Non riusciamo a interporci efficacemente tra le parti in conflitto. Il giorno dopo su tutti i giornali dell’isola compaiono i nostri nomi. Il nostro tentativo di restare in incognito fa a farsi benedire. Gus Dur è il nomignolo del nuovo presidente indonesiano, Adburahman Wahid,  insediatosi dopo le prime elezioni libere del 1999. E’ un  musulmano moderato, sincero sostenitore di quella religiosità islamica tollerante che è stata la caratteristica di questo paese. E’ quasi cieco. L’Indonesia è, con i suoi 206 milioni di abitanti, il più grande paese musulmano del mondo. Nei cinque principi fondanti della repubblica (il panciasila) la spiritualità (di qualsiasi tipo) è menzionata come sostegno dell’unità della nazione. Ma il nuovo governo è debole: da una parte i fondamentalisti islamici, dall’altra l’esercito e l’ex presidente Suharto, cercano di minare il suo tentativo di stabilire una vera democrazia nel paese. I militari e l’ex dittatore hanno in mano un enorme potere economico che cercano di mantenere anche a costo di alimentare il terrorismo e i conflitti regionali. Frans Seda, consigliere del presidente, non usa mezze parole:sono loro che fomentano la guerra nelle Molucche, sono loro a finanziare la Jihad islamica.
Quali che siano i fattori nazionali che influenzano la situazione, mentre guardo il tramonto scendere sul tetto della chiesa protestante (molto spiovente come fossimo in Olanda) mi chiedo perché questo conflitto è diventato religioso, e, se è vero come è vero, che le cause sono politiche ed economiche, perché le fedi si sono fatte coinvolgere e compromettere senza riuscire a porvi un argine.
La prima difficoltà è capire come tutto è cominciato il conflitto. Sammy Titaley, il nuovo moderatore delle chiese protestanti delle Molucche, racconta di suo fratello più giovane tagliato a pezzi con il machete.  Poi dà la sua versione dei fatti: A gennaio 1999 ci fu una lite  tra un autista cristiano e un rapinatore musulmano. I due si sono battuti e la sera stessa i musulmani hanno attaccato il villaggio di Bathumera
La moschea si trova 300 metri in linea d’aria dalla chiesa protestante. I nostri autisti si rifiutano di accompagnarci. Si offre un giovane musulmano che per ‘solo’ 100 dollari (l’equivalente di 150 kg di pesce, o se volete, 400 litri di super) ci fa attraversare il check point, prendere un autobus pubblico e ci scorta da  Yusuf Ely, leader dei musulmani. L’uomo è anziano, ha un fare molto aggressivo: il giorno dell’Udul Fitri, la festa per  fine del ramadan, il 19 gennaio 99, i cristiani hanno attaccato senza motivo un villaggio musulmano. 
Il centro di informazione cattolico, guidato dal vescovo ausiliario Joseph Tethool, ha documentato la presenza in quei giorni di numerosi provocatori che hanno diffuso notizie false in entrambe le comunità,  accusando gli uni e gli altri di aver bruciato chiese e moschee che non erano state ancora attaccate. Da allora le rappresaglie si sono ripetute senza sosta. 
Eppure le Molucche sono state anche il paradiso della tolleranza religiosa per 500 anni. Perché si è rotto l’equilibrio e la tolleranza con cui le due comunità hanno vissuto insieme? Ely attacca: i cristiani vogliono cacciare i musulmani, che controllano il 65% del commercio dell’isola. 
Titaley guarda indietro alla storia: le Molucche sono state per secoli l’esempio di una pacifica convivenza religiosa dovuta in gran parte al sistema del culto degli antenati (ADAT). Musulmani e cristiani ritenevano che entrambe le religioni fossero un modo di venerare lo stesso Dio, solo con riti diversi.  In indonesiano Dio si dice Allah, ma e’ pronunciato diversamente se e’ quello del corano o quello della Bibbia. I villaggi, indipendentemente dalla loro identità religiosa, stabilivano dei patti (PELA) di reciproco aiuto, basati su una effettiva fratellanza. Tanto che i membri dei due villaggi non potevano sposarsi, ritenendo questa eventualità un incesto. I pela erano rinnovati periodicamente da rituali che consistevano nel bere alcool di palma misto a sangue nel quale erano state immerse le armi. Questo sistema culturale, garantito dalla fede negli antenati, ha reso possibile la convivenza per quasi 500 anni.
Vari fattori hanno rotto questo equilibrio: la politica di immigrazione voluta negli anni 70 dal padre padrone dell’Indonesia, Suharto, ha cambiato i rapporti numerici tra le componenti religiose importando musulmani molto poveri e fautori dell’ortodossia islamica.  La ristrutturazione dello stato, la sostituzione dei capi dei villaggi (raja) con politici fedeli a Giacarta, ha causato la fine del culto degli antenati. L’aumento della popolazione ha enfatizzato le differenze sociali: i cristiani infatti erano stati scelti dai colonizzatori olandesi per l’amministrazione e solo a loro era garantita l’educazione scolastica. I musulmani  richiedono  ora più potere nel governo locale e maggiori opportunità economiche. I cristiani si sentono accerchiati. E non hanno tutti i torti. Carta alla mano osservo l’isola dalle colline. Le zone musulmane sono quelle strategicamente più importanti. Oltre la collina che domina la baia, hanno conquistato la zona intorno all’aeroporto e controllano le vie di comunicazione.

Ma almeno su un fatto sia leader protestanti e musulmani hanno la stessa opinione: che sia la gente delle Molucche a decidere, che siano eliminate le ‘influenze esterne’. Il protestante aggiunge: per la nostra cultura siamo fratelli e sorelle, veniamo dallo stesso grembo. Il problema è come faremo a ricordarcelo dopo anni di guerra’

Un'ora prima della nostra traversata, un barcone con 85 cristiani, per lo più famiglie, è stato attaccato da alcuni speed boat. Bilancio: 2 morti e 15 feriti. Mi rendo conto con un brivido che se l’aereo fosse stato in orario ci saremmo trovati a passare tra le pallottole. I superstiti sono all’ospedale della città, nella zona cristiana. Mentre ascoltiamo i loro racconti arriva un pastore che intona con loro inni. Tornavamo a casa, a Galale, quando abbiamo visto le barche avvicinarsi. L’obiettivo era il capitano della nave. Gli abbiamo fatto scudo con i nostri corpi. Siamo stati sotto il fuoco per 45 minuti. 
Nelle stanze attigue incontro un ragazzino di 14 anni che ha perso una gamba negli scontri. Non sei troppo giovane per combattere? No. Perché no? Perché loro usano tutte le loro armi e non riusciamo più a tenerli. Di cosa hai bisogno? Per me di una gamba artificiale e, per i miei compagni, di armi. A pochi metri un giovane uomo dall’età indefinibile cerca di raccontarci la sua storia. Il traduttore ha difficoltà a capire le sue parole: la bocca è gonfia, gli occhi emergono dalle orbite. Del suo naso resta solo l’osso e le orecchie sono tagliate. E’ stato bruciato vivo  durante un’azione difensiva quando da una parte la Jihad, dall’altra l’esercito hanno attaccato il villaggio.
Chiedo conto a Yusuf Ely dell’attacco al barcone. ‘E’ stata la reazione di difesa musulmana per uno scontro che c’era stato nel mercato, al mattino’. Obietto: ma quelle erano famiglie. ‘Non importa, se tu uccidi un musulmano io uccido un cristiano’. Ma, insisto, se loro uccidono bambini e vecchi…’ Noi facciamo lo stesso. Qualcuno dice che è conflitto sociale ma, sul campo, è un conflitto religioso, una guerra di religione. Perché? Arrivano e bruciano le moschee. Che male fanno le moschee ai cristiani? Che male fanno le chiese ai musulmani? chiedo. I musulmani si difendono e bruciano le chiese. Per far terminare il conflitto basta che loro la smettano di attaccare, perché noi, secondo la nostra religione, non possiamo attaccare, abbiamo solo il diritto di difenderci. 
Ely, sul finire dell’intervista si quieta, il muezzin intona il suo richiamo per la preghiera, e il vecchio mi spedisce da suo nipote, Thamrin Ely, il rappresentante dei musulmani presso il presidente Wahid. . E’ un moderato, ma ci tiene a mostrarmi il cimitero improvvisato nel quale sono seppellite le giovani vittime degli scontri. La sua scorta è composta da giovani in tutto simili a quelli che ho visto all’ospedale. Sulla maglietta di uno compare la scritta: Vivere è bello, ma morire  combattendo, è meglio. Quali sono le soluzioni possibili? Ricollocazione, cioè spostare i villaggi musulmani in zone musulmane, al nord (dove c’è l’aeroporto, ndr), villaggi cristiani a sud (nella città). 
L’ipotesi è piuttosto curiosa perché nell’isola queste zone, prima del conflitto non erano distinte. Villaggi cristiani e musulmani erano sparsi uniformemente, gli uni attaccati agli altri. Chiedo degli sviluppi della battaglia nell’isola di Saparua. E’ finita. si affretta a rispondere. Ma non fa in tempo a bloccare uno della scorta che ridendo aggiunge: Non ancora. 
Lo spazio di manovra dei moderati musulmani è limitato dalla Jihad che li controlla. In agosto uno di loro è stato impiccato nella moschea, accusato di aver collaborato con i cristiani. Un chiaro avvertimento. 
I cristiani accusano gli islamisti di voler inserire la Sharia, la legge islamica, nell’ordinamento indonesiano. Thamrin, aggiusta gli occhialetti da intellettuale e chiede retoricamente: Perché mai?, Non ce n’è bisogno, la maggioranza è musulmana’.  Ma l’accusa cristiana non è infondata. In Indonesia è in atto uno scontro tra musulmani moderati e fondamentalisti.  A gennaio 2000 un milione di persone si sono riunite a Giacarta, nella piazza del Monas (l’enorme monumento all’unità nazionale, costruito con marmi italiani e 36 chili d’oro) che si trova davanti alla più grande moschea del Sud est asiatico. In quell’occasione si è proclamata la guerra santa nelle Molucche e si è formato il Laskar Jihad (un gruppo paramilitare) che è sbarcato in forze ( undicimila unità)  ad Ambon in aprile.  Alla Moschea ripetono stancamente che la Jihad è venuta per aiutare i bambini a preparare i loro esami e per la pulizia delle strade. Non sanno spiegare perché i ‘Bianchi’ hanno voluto portare anche 9 container di armi. Secondo il governo si tratta di un’organizzazione militare finanziata dalla cerchia di Suharto. E i risultati non sono mancati. La guerra ha fatto un salto di qualità. Prima gli scontri coinvolgevano ragazzini armati di frecce, lance e bombe fatte in casa con l’esplosivo recuperato da ordigni bellici scaricati in mare dagli alleati alla fine della II guerra mondiale. Ora i feriti e i morti portano i segni delle granate, degli SS20 e degli M16, i mitragliatori in dotazione all’esercito. La reazione del governo alla tragedia delle Molucche, è stata lenta e incerta. Per prima cosa ha inviato 21 battaglioni. Ma anche l’esercito è diviso al suo interno. E invece di interporsi tra le forse in conflitto ha scelto di mettersi dalla parte musulmana. Alcuni hanno disertato per aiutare i cristiani. 
Frans Seda, il consigliere di Wahid spiega le difficoltà del governo: Il presidente è contro  la Jihad ma prende il cosiddetto atteggiamento culturale. Essendo musulmano Gus Dur non li vuole affrontare, non vuole ordinare loro di lasciare l’isola, glielo ‘consiglia’. E quelli fanno quello che vogliono. E’ una lotta tra musulmani e musulmani.
Inatteso ospite si presenta al nostro albergo Alex Manuputty, un ex fisico, protestante circondato da quattro militanti che, lo scopriremo poi, sono i capi dei paramilitari cristiani Questo combattente dalla barba sfatta è ritornato dall’Olanda dove risiede il governo in esilio della  Repubblica Del Sud Delle Molucche. Presumibilmente per chiedere  aiuti economici e militari. Era lui il tipo con la maglietta di Amnesty international.
Intervento delle Nazioni Unite o indipendenza delle Molucche, non ci sono alternative. Non vogliamo restare indonesiani per essere uccisi dall’esercito. A sostegno della sua tesi mi mostra una decine di granate inesplose del tipo in dotazione all’esercito. Sono tenute in acqua per evitare danni. Lo saluto frettolosamente. 
Al campo profughi di Passo ci immergiamo nella calca dei cristiani fuggiti da Whaii. Sono arrivati in 3000, guidati da una pastora protestante. Per aggirare le strade bloccate dai musulmani hanno attraversato le montagne. La pastora occupa una piattaforma centrale nel grande capannone, circondata da bibbie. Ora le famiglie sopravvivono grazie all’aiuto di Action Contre la Faim e Médecins sans frontières. Le stesse organizzazioni che provvedono al cibo e alle medicine nel campo profughi musulmano. Qui 250 persone stazionano in una ex scuola. ‘Sono tutti sotto shock’. Con la perdita dei loro familiari e delle case, hanno subito un trauma, dal quale si risolleveranno solo con il lavoro,  ci dice la responsabile del campo Siti Nurlaila. 
Anche qui, come in Ruanda e in Bosnia, l’identità religiosa si è sovrapposta a un conflitto economico e politico. E’ una reazione alla globalizzazione, un baluardo simbolico. Forse il risultato di una cristianizzazione superficiale. Nonostante in entrambi i campi ci sia stata una forte secolarizzazione ora le chiese e le moschee sono strapiene. Non posso non stupirmi quando, al culto della domenica mattina, noto tante tute mimetiche alzarsi in piedi per recitare il Padre Nostro.
Il giorno della partenza la nebbia mattutina mi sembra più  fitta mentre faccio le valige. Mi rendo conto che non di nebbia si tratta ma di fumo. L’altra parte della baia è in fiamme. I musulmani hanno sferrato l’ennesimo attacco finale per conquistare la zona dell’aeroporto e ‘pulire’ tutto il nord dell’isola. L’ufficio del governatore è deserto, la compagnia aerea non risponde. Decidiamo di tentare la traversata comunque. L’ipotesi di restare ancora in mezzo agli scontri non  mi piace affatto e così finisco per raccogliere lo zainetto e m’incammino per l’imbarcadero. Il marinaio dello speed boat ci accoglie come fosse un giorno normale, nonostante sia il solo a fare servizio. Contrattato il prezzo (5 volte superiore al normale) si decide a portarci dall’altra parte della baia, vicino all’aeroporto. Ci sarà l’aereo? Insciallah. All’approdo di Laha c’è solo un’auto. Gli speed boat caricano oltre le loro possibilità gli abitanti del villaggio in fuga. Un gruppo di giovani ci chiede di restare per combattere con loro. Vi saremo più utili se porteremo le notizie in occidente, abbozzo io, nascondendomi dietro una mezza verità. Hanno armi che sembrano giocattoli, corrono su è giù gridando per farsi coraggio. Famiglie in fila indiana costeggiano la strada, cariche di fagotti mentre il nostro autista suona il claxon a ripetizione, come fossimo un’ambulanza. L’aereo ci aspetta sulla pista. Siamo in pochissimi. Curiosamente la metà dei passeggeri è composta di poliziotti armati

 

Pubblicato su Confronti.

 

L'inchiesta televisiva e' andata in onda su Raidue- Protestantesimo.

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